L’Italia e il Mediterraneo tra colonialismo e postcolonialismo

1 juliol 2024 | | Anglès

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Il rapporto con il Mar Mediterraneo, fondamentale nella storia della Penisola italiana, dopo la nascita del Regno d’Italia (1861) divenne un elemento centrale su cui le élite costruirono sia politiche concrete, sia discorsi funzionali a tali politiche. Obiettivo di questo articolo è ripercorrere sinteticamente come l’idea di Mediterraneo sia utilizzata, e per quali scopi, nel periodo liberale (1861-1922), durante il ventennio fascista (1922-1943), sino al primo periodo repubblicano.

Ripercorrere l’uso del Mediterraneo e della mediterraneità in questo arco di tempo significa necessariamente tenere in considerazione la politica coloniale che lo Stato italiano avviò appena dopo l’unificazione[1]. Tale politica portò all’occupazione di Eritrea (divenuta colonia nel 1890), Somalia (1908), e Libia (composta da Cirenaica e Tripolitania, formalmente italiana dal 1912). Nel frattempo, l’Italia si era anche assicurata un possedimento in Cina, a Tianjin, e aveva occupato Rodi e 12 isole nell’Egeo. Il governo fascista avrebbe cercato di consolidare il controllo effettivo nei territori africani, e nel 1935-36 occupò l’Etiopia; per poi rivolgere, a ridosso del secondo conflitto mondiale, i propri progetti espansionistici verso i territori dei Balcani e verso la Grecia. Il controllo su tutte queste aree cessò nel corso della guerra, senza però segnare la fine delle aspirazioni coloniali da parte dello Stato post-fascista. La perdita delle colonie fu però il primo segno concreto di una necessità, per l’Italia, di immaginare un nuovo ruolo internazionale, a partire proprio dal bacino Mediterraneo. Di seguito si vedrà, dunque, come il Mediterraneo sia mobilitato, discorsivamente e concretamente, in ognuna di queste fasi, finendo per sorreggere politiche differenti ma rimanendo centrale nell’auto-narrazione del paese nel corso del tempo.

Il Mediterraneo e l’Italia liberale

Dopo il 1861 per il giovane Stato italiano era necessario ottenere riconoscibilità e autorevolezza, tanto all’interno quanto all’esterno dei confini nazionali. Nell’ottica di cercare nel passato la legittimazione del presente, il Regno d’Italia si raccontò da subito come erede dell’antica Roma; l’aspirazione espansionista rifletteva, tra le altre cose, l’intento di confermare quel trait-d’union affermando il controllo di Roma sul bacino mediterraneo. In quel contesto il Mare nostrum era inteso non più come il “mare che si conosce” ma come “il nostro mare”, su cui l’Italia aveva il diritto di esercitare un’egemonia. Anche se le mire coloniali trovarono i primi esiti concreti nel Corno d’Africa, uno dei territori cui il Regno mirava da subito era la Tunisia, verso cui nei secoli si era indirizzata una forte emigrazione italiana. L’imposizione del protettorato francese su quel territorio, nel 1881, e il protettorato britannico sull’Egitto costrinsero gli italiani a spostare le proprie mire verso l’unico territorio della sponda mediterranea del Nord Africa ancora formalmente sotto il controllo dell’impero ottomano: quella che i giornali chiamavano Libia, facendo nuovamente ricorso a un nome tratto dalla romanità. L’uso del termine “Quarta sponda” doveva enfatizzare invece la naturalezza della presenza italiana su quella costa: quarta, dopo quella tirrenica, adriatica e ionica. Nel corso della guerra di occupazione della Libia del 1911-12 la Marina italiana aveva anche iniziato un’azione nel mare Egeo, occupando l’isola di Stampalia, Rodi e altre 11 isole, con l’intento di minacciare l’Impero ottomano con una presenza in un’area nevralgica per i suoi interessi politici ed economici. Più in generale, però, l’occupazione delle isole rientrava nella dimensione mediterranea del progetto coloniale italiano: teoricamente temporanea, la presenza nell’Egeo fu poi ufficializzata dal trattato di Losanna del 1923, e durò sino alla Seconda guerra mondiale.

L’idea di Mediterraneo nel fascismo

L’avvento del fascismo nel 1922 segnò una ulteriore centralità del Mediterraneo, tanto nelle retoriche quanto nelle pratiche del governo italiano.

Il Mediterraneo era inteso, in questa fase, in senso ampio: rifacendosi a un’idea che aveva già preso forma dopo l’apertura del canale di Suez nel 1869, e che ridisegnava la geografia del Mare nostrum mettendolo in comunicazione diretta con il mar Rosso, il fascismo adottò nei propri discorsi un concetto di Mediterraneo allargato, che teneva assieme il bacino vero e proprio l’area su cui insistevano le colonie italiane del Corno d’Africa. Tale concetto era peraltro fondamentale per veicolare un’idea cruciale per il regime: quella di “impero”, inteso come una unità territoriale e spirituale che comprendeva territorio nazionale e colonie, di cui Mussolini proclamò la nascita dopo l’occupazione dell’Etiopia, nel 1936[2].

Dopo la proclamazione dell’impero Mussolini insistette ulteriormente sulla mediterraneità come carattere distintivo del progetto italiano e fascista, in contrapposizione agli imperialismi liberali. In quest’ottica, nel 1937 inaugurò la cosiddetta “politica islamica”, che voleva proporre l’Italia come il punto di riferimento per i popoli del Mediterraneo che si trovavano sotto il controllo di Francia e Gran Bretagna.

Se la politica islamica ebbe un impatto solo propagandistico, decisamente concreto fu invece il tentativo di costruire un “nuovo ordine mediterraneo”[3]: mentre la Germania, con cui l’Italia fascista aveva stretto un’alleanza nel 1938, voleva costruire un “nuovo ordine europeo” fondato sulla centralità dello Stato tedesco nel continente, Mussolini intendeva rendere l’Italia il centro di un assetto geopolitico che comprendeva l’Africa e i Balcani. In quest’ottica fu concepita l’occupazione dell’Albania nel 1939, dove l’Italia avviò un vero e proprio sistema coloniale, della Grecia, e della Jugoslavia.

Il Mediterraneo, la Repubblica e il passato coloniale

Le truppe Alleate occuparono le colonie del Corno d’Africa nel 1941, e la Libia nel 1943: la perdita del controllo italiano sui territori africani avvenne nei fatti durante il conflitto, e sarebbe stata ufficializzata dal trattato di pace del 1947. L’Italia però, ancora negli anni successivi, cercò di mantenere un ruolo su Eritrea, Libia e Somalia: il governo italiano cercò di influenzare l’Onu, che doveva decidere l’assetto futuro di quei territori, facendo leva sulla presunta opera civilizzatrice e di valorizzazione compiuta dall’Italia. Culmine di questo lavorio diplomatico fu l’accordo raggiunto con la Gran Bretagna nel 1949, per la spartizione della Libia: il cosiddetto patto Bevin-Sforza che però non fu votato all’Onu. A quel punto, la posizione dell’Italia cambiò ed essa (pur avviandosi ad assumere l’amministrazione fiduciaria della Somalia per un decennio, dal 1950 al 1960) iniziò a sostenere l’indipendenza dei paesi colonizzati. Tale svolta può essere considerata il punto di partenza della nuova politica estera italiana, in cui il Mediterraneo tornava ad avere una rinnovata centralità a partire da una narrazione specifica del passato coloniale.

Sulla mediterraneità, infatti, la giovane Repubblica italiana, nata nel 1948, costruì ben presto l’idea una propria specificità. In un mondo che andava strutturandosi secondo una direttrice Est/Ovest, alle classi dirigenti italiane sembrò infatti possibile valorizzare invece l’asse Sud/Nord, proponendo l’Italia come ponte, in quanto paese del meridione d’Europa (peraltro unico a godere di una qualche stabilità politica e non essere sotto un regime dittatoriale). Inoltre, in maniera quasi paradossale, mentre gli altri paesi europei e in particolare la Gran Bretagna e la Francia stavano iniziando con non poche difficoltà a fare i conti con la decolonizzazione, l’Italia poteva enfatizzare la propria posizione di paese non più compromesso con vincoli coloniali.

Sono diversi i terreni su cui può essere verificata la centralità del Mediterraneo per la ridefinizione internazionale dell’Italia tra gli anni ’50 e i primi ’60. Tra questi ci sono ad esempio i “Colloqui Mediterranei”, organizzati dal 1958 da Giorgio La Pira (democristiano, membro dell’Assemblea Costituente, sindaco di Firenze dal 1951 al 1965). Se ufficialmente l’obiettivo dei colloqui era ricercare le comuni radici culturali tra i popoli del Mediterraneo, gli incontri svolgevano la funzione di una diplomazia informale. Il Mediterraneo era visto da La Pira come lo spazio della ricomposizione dei conflitti; l’Italia nel Mediterraneo come una mediatrice tra i due blocchi; e come interlocutrice dei paesi non allineati[4].

La centralità del Mediterraneo emerge anche sul terreno della cooperazione tecnica: pur in assenza sino agli anni ‘70 di una vera politica di cooperazione, nel 1961 fu approvata la legge Martinelli, che riguardava tra le altre cose l’assistenza finanziaria e i crediti per opere eseguite all’estero da aziende italiane. La legge, che costituiva il primo parziale strumento per una politica di aiuti, individuava come aree di azione prioritaria quelle in cui il Paese aveva interessi economici: il Mediterraneo-Medio Oriente e l’Africa. Il bacino, dunque, si confermava come un asse strategico sia per la politica estera, che per quella economica e di cooperazione. Nella formazione tecnica la volontà di affermazione italiana fu di nuovo supportata da un discorso sulla specialità del Paese: ne è esempio l’IRI (istituto di ricostruzione nazionale, che controllava un numero di aziende pubbliche in vari settori), che nell’avviare un programma di formazione di tecnici marcava la differenza con l’agire di altri paesi in materia di aiuti:

Abbiamo posto in guardia contro la deformazione di questo concetto che fa consistere la cooperazione tecnica in una semplice sostituzione di uomini e non in un trasferimento di capacità […] Ciò crea un obiettivo perpetuarsi dello stato di inferiorità del paese assistito, una dilazione del momento di inizio del processo di rinascita. Quindi, secondo il linguaggio che alcuni preferiscono, un obiettivo pericolo di riproduzione di nuove forme di colonialismo[5].

Il contesto in cui però il bacino mediterraneo emerge maggiormente come lo spazio di costruzione di una nuova politica è quello che vede in azione Enrico Mattei. Partigiano, deputato nella Democrazia Cristiana, Mattei fu nominato dal governo commissario liquidatore dell’Agip, ente statale per l’estrazione, la lavorazione e la distribuzione dei petroli. Egli invece ne rilanciò l’attività, e spinse per la creazione di una politica energetica nazionale, diventando nel 1953 presidente della nuova società energetica statale, l’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni). In questa veste avviò quella che fu definita una “politica estera parallela”: sfruttando anche un momentaneo disinteresse delle altre e più potenti società petrolifere, Mattei lavorò con diversi paesi (Iran, Libia, Egitto di Nasser, Algeria e Marocco) per la costituzione di un sistema basato su compagnie miste tra Eni e governi locali. A caratterizzare il suo operato furono sia le basi di parità da cui partivano i contratti di estrazione, sia il fatto che questi venivano impostati apertamente in contrapposizione alle politiche neocoloniali delle altre compagnie petrolifere.

Conclusioni: Una politica mediterranea postcoloniale senza colonialismo

Archiviata senza una discussione politica o un dibattito pubblico la fase del colonialismo formale, l’Italia si trovò dunque a reimpostare rapporti che da una parte ridessero credibilità al paese appena uscito dal fascismo, e dall’altra le garantissero un posto nel contesto della guerra fredda. In quest’ottica vi fu, quindi, una nuova enfatizzazione del ruolo mediterraneo del paese, che veniva giustificato facendo leva tanto sulla sua posizione geografica, quanto sulla sua pretesa “posizione storica”.

Se il discorso di Mattei tracciava la differenza rispetto al presente del dopoguerra, costruendo una pratica diversa da quella in contemporanea portata avanti dalle compagnie petrolifere di altri paesi, il discorso più generale sul “nuovo ruolo mediterraneo” dell’Italia muoveva dal presupposto di una diversità più ampia, e radicata nel passato.

Per sostenere tale diversità fu centrale il discorso elaborato sul colonialismo. Fin dall’immediato dopoguerra le classi dirigenti avevano descritto l’operato italiano in Africa come differente dagli altri imperialismi: meno o per niente cruento, e soprattutto portato avanti da lavoratori e non da colonizzatori. Tale lettura, che elide la violenza, il razzismo, la sopraffazione, era una ulteriore rielaborazione di un tema già presente nel discorso coloniale dell’Italia liberale e di quella fascista. In particolare, per Mussolini, il colonialismo italiano esportava braccia e know how, mentre quelli delle democrazie liberali avevano un carattere di rapina.

Nel dopoguerra in avanti quel discorso parziale, assolutorio, e pacificato, si è rivelato fondamentale per la politica estera e per la rivendicazione di un ruolo mediterraneo dell’Italia: solo a partire da tale presunta diversità rispetto alle altre potenze l’Italia repubblicana ha potuto accreditarsi come adatta a fungere da punto di riferimento per i paesi della sponda orientale, e soprattutto nordafricana del bacino.


[1] Valeria Deplano, Alessandro Pes, Storia del colonialismo italiano (Roma: Carocci, 2024)

[2] Nicola Labanca, Impero in Victoria De Grazia, Sergio Luzzatto (a cura di), Dizionario del fasci­smo, vol I (Torino: Einaudi, 2005), 659-62.

[3] Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo (Torino: Bollati Boringhieri, 2003)

[4] Leila El Houssi, L’Africa ci sta di fronte (Roma: Carocci, 2022), 61-64.

[5] Donato Di Sanzo, Beatrice Falcucci, Gianmarco Mancosu (a cura di), L’Italia e il mondo post-coloniale (Firenze: Le Monnier, 2023)

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