Potere, conflitti e rivolte nella Sicilia spagnola (XVI-XVII secc.)

10 December 2024 | | Italian

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La morte di Ferdinando il Cattolico e la contrastata successione al trono di Carlo si accompagnarono anche in Sicilia – come altrove nei regni iberici − a una lunga ondata di malessere destinata a sfociare in una complessa trama di congiure e rivolte, che interessarono il panorama politico siciliano in particolare negli anni compresi tra il 1516 e il 1523. La sequenza degli avvenimenti è piuttosto complicata e spesso confusa nelle ricostruzioni, ma la storiografia ha comunque isolato tre momenti distinti, anche se non staccati e indipendenti fra loro: nel 1516 la rivolta contro il viceré Moncada, nel 1517 la congiura e rivolta di Gianluca Squarcialupo e infine nel 1523 la congiura dei fratelli Imperatore.

Si tratta, comunque, di vicende che – come la più recente storiografia ha dimostrato (Simona Giurato) – affondano le loro radici negli anni immediatamente successivi all’ascesa di Ferdinando al trono d’Aragona nel marzo del 1474, e che non possono essere lette prescindendo dal contesto più ampio della monarchia iberica e del coevo scenario europeo. Lo scontro politico si polarizzava sempre più attorno alle due importanti famiglie dei Ventimiglia – colpita dall’avversione del sovrano – e dei Luna, che invece beneficiarono del suo favore: l’una e l’altra capaci di raccordare attorno a sé schieramenti trasversali di cui facevano parte indifferentemente componenti dell’aristocrazia isolana e dell’oligarchia urbana. A Palermo in particolare si era ormai aperta la lotta per l’occupazione delle cariche municipali che porterà nel giro di pochi anni i Bologna alla conquista di posizioni nevralgiche del governo cittadino, mentre l’isolamento di alcuni personaggi, come ad esempio gli Squarcialupo e gli Imperatore, innescherà successivamente la rivendicazione degli esclusi.

Ma il malcontento coinvolgeva anche il Santo Uffizio e in particolare i privilegi di cui i suoi ufficiali godevano, tanto da indurre nel dicembre 1510 (praticamente in contemporanea ai disordini aragonesi e napoletani) i giurati di Palermo a rifiutare di prestare giuramento di obbedienza e sottomissione al tribunale. Ancora il Parlamento del 1514 protestava apertamente nei confronti dell’attività inquisitoriale (si consideri il caso delle Cortes di Monzón 1510 e 1512).

È questo, dunque, il difficile clima in cui il Regno apprende della morte di Ferdinando il Cattolico avvenuta il 23 gennaio 1516, in cui anche per l’odio radicato nei confronti del viceré Moncada riemerge una vecchia questione costituzionale – subito appoggiata dal gruppo che faceva capo a Simone Ventimiglia – ossia che, una volta deceduto il sovrano, il viceré dovesse ritenersi decaduto. L’analogia con le richieste aragonesi risulta evidente e conferma la necessità di inquadrare i fatti siciliani all’interno di dinamiche di più vasto respiro.

Libertà e privilegio appaiono gli assi portanti della protesta: privilegi del regno ossia le antiche libertà politiche e privilegi fiscali ossia la libertà dalle tasse. Liberare il regno dalla tirannia nella quale stava da molti anni, abolire il regio donativo, le gabelle e il nuovo imposto sul grano; eliminare l’Inquisizione spagnola, ripristinando la medievale affidata ai frati predicatori domenicani, oppure ai vescovi competenti nelle loro diocesi; riservare a italiani prelazie e dignità; insediare un viceré siciliano: sono questi i punti strategici della battaglia politica. Tirannia e libertà: due termini – nota Adelaide Baviera Albanese – il cui uso risulta «frequentissimo in tutta la corrispondenza del 1516». I rivoltosi inoltre volevano fissare su basi più eque il patto con la monarchia e si richiamavano in particolare al tempo dei due Martini. Un ritorno al passato, sostanzialmente. La Francia era ancora lontana. L’idea di proporre a Francesco I l’accordo che Carlo aveva rifiutato emergerà netta solo nel 1523 con la congiura ordita dai fratelli Imperatore, che avevano concepito il progetto di cedere la Sicilia al re di Francia negli anni dell’esilio a Roma.

L’ambiente in cui matura la congiura del 1517 è quello di alcuni esponenti del patriziato urbano e di componenti dei ceti più umili, che pare si fossero riuniti nella casa di Antonio Ventimiglia. Lo Squarcialupo stesso, già protagonista della rivolta antimoncadiana, può considerarsi un esponente dello strato inferiore del patriziato palermitano, la cui famiglia aveva tentato la scalata verso le cariche cittadine in qualche caso con esito positivo. Un punto di riferimento per le masse popolari. Probabilmente la chiave per entrare all’interno di questa congiura del 1517 è quella che ruota attorno al governo municipale di Palermo, che si spaccò e si ricompose attorno a elementi filorivoluzionari con un Ventimiglia (Giovanni) come pretore; e più in particolare attorno all’ascesa dei Bologna, che di fatto controllavano la città e che possono essere considerati i veri vincitori, capaci di ricompattare l’oligarchia senatoria dopo la repressione.

Il ristabilimento dell’ordine nell’isola consentì a Carlo di ricevere finalmente nel dicembre del 1518 il giuramento del regno, e di assumere provvedimenti importanti, come il ripristino del tribunale dell’Inquisizione, con la ricostituzione dell’organico. Ma almeno sino al 1522 il panorama politico rimase fluido in un contesto avvelenato da sospetti e da arresti.  Venne sventata la congiura filofrancese dei fratelli Imperatore, maturata negli anni dell’esilio a Roma dovuto alla loro partecipazione ai fatti del 1516. Ora è la fedeltà del regno a essere messa in dubbio. La repressione fu esemplare e inequivocabile.

Chiusa questa fase, l’unico episodio rilevante di conflittualità nel Cinquecento fu il moto palermitano del 1560, capeggiato dal notaio Tarsino (Rossella Cancila). Senza il sostegno dell’aristocrazia, la rivolta, che pure si colloca in un momento cruciale della formazione della monarchia spagnola, rimase isolata e circoscritta a una dimensione più strettamente urbana, in cui entrano in gioco gli elementi tipici delle rivolte d’antico regime: le imposte, il pane, i gruppi di potere cittadino. Una medaglia a due facce: una sociale e una politica. Della prima è protagonista il popolo esasperato dalla crisi e provocato dalla manovra fiscale percepita come ingiusta perché non determinata dalla carestia, ma da una gestione poco accorta da parte delle autorità cittadine: un modo insomma per estorcere risorse. Della seconda sono invece protagonisti i ceti dirigenti cittadini, che si giocano i rispettivi rapporti di potere. Rivendicavano da un lato il diritto di partecipazione alla vita politica cittadina e alla difesa delle proprie posizioni, impedendo così che i maggiorenti della città organizzassero il consiglio tra loro e decidessero a proprio vantaggio. Una partita, insomma, in cui si giocano forti interessi a livello locale: le politiche annonarie, il controllo delle tariffe, in particolare del prezzo del pane contro le speculazioni del mercato, l’imposizione di nuove gabelle, i criteri di ripartizione del carico fiscale tra gli abitanti, la partecipazione politica.

Diversamente da quanto era accaduto nelle rivolte della prima metà del secolo, la feudalità ora si schierava, infatti, col governo: segno di un chiaro venir meno delle sue velleità autonomistiche, ma anche di un mutato rapporto con la corona, nei confronti della quale il baronaggio siciliano aveva perduto gran parte del proprio potere contrattuale. Il panorama internazionale era cambiato: la Spagna dominava ormai la scena europea, mentre la sconfitta della Francia aveva tolto un punto di riferimento importante alle frange antispagnole; il pericolo turco e le necessità di difesa del territorio legavano d’altra parte in modo sempre più indissolubile la Sicilia alla Spagna.

Le rivolte degli 1647 maturano nel difficile contesto della crisi del Seicento e da Palermo si estendono presto nei più importanti centri dell’isola (Daniele Palermo). La guerra dei Trent’Anni, la bancarotta del 1647, le rivolte in Catalogna e in Portogallo configurano un quadro di riferimento politico di gravi difficoltà e tensioni con inevitabili risvolti anche negli altri centri della Monarchia. D’altra parte, a livello locale la lunga sequenza di cattivi raccolti e le conseguenti crisi alimentari ponevano questioni urgenti quali l’abolizione delle gabelle, il controllo della distribuzione delle risorse alimentari, la difficoltà degli approvvigionamenti alimentari. Ma anche l’allargamento della base della partecipazione politica e la questione del governo cittadino costituirono temi che infuocavano l’arena a livello a locale nelle grandi città come nei centri minori. Ancora una volta le rivolte possono essere lette come il frutto di conflitti “fazionali”, in cui gruppi socialmente distinti stringono alleanze e strategie attorno a interessi comuni nel tentativo di ridefinire nuovi equilibri all’interno delle élite cittadine (Francesco Benigno).

La Sicilia in fiamme fu infine riportata all’ordine grazie al contributo del partito lealista in cui in fin dei conti si riconosceva buona parte della nobiltà ma anche molte maestranze preoccupate dell’evoluzione degli eventi.   

Negli anni Settanta del XVII secolo, la rivolta di Messina, tra i casi di ribellione più studiati dalla storiografia contemporanea, propone la questione della fedeltà di Messina nel contesto della questione della capitale.  Considerata il conflitto politico più importante tra quelli che si verificarono nella Monarchia di Carlo II (Luis Ribot), si caratterizza per una prima fase nel 1672 interna alla città e polarizzata attorno allo scontro tra le due fazioni dei Malvizzi (dominanti in Senato) e dei Merli, che guidano la sollevazione popolare. La posta in gioco è ora il controllo e il dominio della città. Malvizzi e Merli non rappresentano però blocchi di potere chiaramente connotati sul piano sociale, ma rispecchiano nei diversi allineamenti clientele e rivalità familiari e personali.

Ristabilito l’ordine, nel 1674 il Senato e la fazione malvizza guidarono la ribellione contro il governo della Monarchia: ora l’obiettivo è rinegoziare un nuovo rapporto con la Corona rispetto all’intervento del viceré nelle questioni riguardanti Messina – che era sede viceregia come Palermo – e ai suoi privilegi. Anche a costo di rivolgersi al re di Francia. Il 28 aprile 1675, il Senato messinese prestava omaggio di fedeltà a Luigi XIV e ai suoi successori nelle mani del duca di Vivonne, comandante supremo dell’armata francese in Sicilia, che nell’occasione veniva nominato viceré e luogotenente generale nell’isola, in cambio del rispetto dei privilegi e delle libertà della città. La rottura del legame di fedeltà con la monarchia spagnola e la scelta di una buona parte del ceto dirigente messinese di passare sotto il protettorato francese nel settembre 1674 proiettavano ormai su un piano diverso la rivolta, investendola di implicazioni politiche e militari di vasta portata con conseguenze gravi per la tenuta della presenza spagnola in Sicilia. Non era più un evento circoscritto a una dimensione locale, ma si trattava di un tassello mediterraneo nevralgico inserito in un quadro internazionale complesso nel contesto di una guerra aperta, che già nel settembre 1673 Luigi XIV aveva dichiarato alla Spagna di Carlo II.

La pace di Nimega (1678) riconsegnava sul piano formale Messina agli spagnoli, segnando l’inizio di una repressione, che sarebbe costata molto cara alla città, accusata del grave delitto di lesa maestà, privata dei suoi privilegi e umiliata. Al contrario, Palermo poteva rivendicare la sua fedeltà e la sua resistenza, assumendo ormai il ruolo di capitale incontrastata di un Regno, che aveva recuperato la sua integrità territoriale e dinastica. Incondizionata era stata la sua adesione alla lealtà al sovrano piuttosto che alla patria – intesa come espressione di una identità locale e dunque dei privilegi a essa connessi –, di cui invece la propaganda vicina a Messina era stata negli anni maggiore sostenitrice: «non potevano i messinesi scordarsi del re per adherire alla patria, essendo verso questa l’amore indotto dalla natura, verso di quegli l’ossequio ordinato da Dio, auttor della natura» (Francesco Strada, segretario del Senato palermitano, 1682).

Da lì a poco, in verità, si sarebbero aperte nuove stagioni di fedeltà.

Bibliografia essenziale:

  • A. Baviera Albanese, La Sicilia tra regime pattizio e assolutismo monarchico agli inizi del secolo XVI , in «Studi Senesi», XCII, II, (1980), pp. 189-310
  • F. Benigno, Favoriti e ribelli. Stili della politica barocca, Bulzoni, 2011 (Terza parte)
  • S. Bottari, Tra Merli e Malvizzi: cultura, religione e politica a Messina alla vigilia della rivolta del 1674-1678, 2015
  • R. Cancila, Congiure e rivolte nella Sicilia del Cinquecento, in «Mediterranea ricerche storiche», n. 9 (2007)
  • S. Giurato, La Sicilia di Ferdinando il Cattolico: tradizioni politiche e conflitto tra Quattrocento e Cinquecento (1468-1523), Rubbettino 2002
  • D. Palermo, Sicilia 1647. Voci, esempi, modelli di rivolta, Quaderni Mediterranea ricerche storiche, n. 9, 2009 (on line open access)
  • L. Ribot, La Monarquía de España y la guerra de Mesina (1674-1678), Actas, Madrid, 2002


This article captures the content of a conference delivered at the Aula Mediterrània series in Barcelona.
Watch again the lecture by Rosella Cancila